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Un anno sognato pericolosamente

Unknown-2Nel suo ultimo libro – Un anno sognato pericolosamente –  Zizek  insiste con la sua abituale provocatoria arguzia su temi a lui cari. Ci ricorda innanzi tutto che uno dei «pericoli principali del capitalismo, nonostante sia globale e abbracci il mondo intero [è quello di sostenere] una costellazione ideologica che è, stricto sensu, ‘senza mondo’, e priva la stragrande maggioranza delle persone di ogni orientamento cognitivo che produca il senso». La conseguenza dello story telling capitalista è la violenza che non rivendica nulla se non la  messa in scena di un carnevale consumista di distruzione. Il riferimento è ai saccheggi  del 2011 nelle periferie londinesi: «che razza di universo è quello in cui viviamo,» commenta Zizek, «che può autocelebrarsi come società della scelta, ma in cui la sola alternativa disponibile a un consenso democratico imposto è una forma di cieco acting out?» 

L’altro tema su cui insiste Zizek è  il  superamento della falsa opposizione tra la bieca intolleranza razzista e la tolleranza rassegnata di un certo multiculturalismo. La prima,  trincerata dietro i tribalismi difensivi delle proprie appartenenze proietta sull’extracomunitario quel furore ideologico già a suo tempo proiettata sugli ebrei. «Gli immigrati stranieri sono gli ebrei di oggi, il bersaglio principale del nuovo populismo» proprio perchè rappresentano l’intruso straniero che costituisce una minaccia per il corpo sociale. La seconda, la tolleranza multiculturale,  pure si rassegna alla differenza localista e alla ghettizzazione delle appartenenze  identitarie tradendo la ricerca  di una possibile alleanza tra  tensioni  volte alla costruzione dell’umano nelle diverse culture anche là dove la retorica degli opposti fondamentalismi le offusca.  La sintesi di Zizek: non limitarsi a rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, perché i nostri problemi più pressanti sono problemi comuni.

 I promotori della primavera araba o l’opposizione civile iraniana, per fare due esempi non sono ‘fondamentalisti’ (il termine non è proprio corretto) e tuttavia sono musulmani credenti. I sostenitori di Musavi (che è risultato sconfitto forse per brogli alle ultime elezioni in Iran) vestivano di verde e gridavano Allah è grande proprio perché non volevano lasciare il monopolio dell’identità islamica ai fanatici fondamentalisti… in  altre parole non è saggio rappresentare l’Islam di per sé come un blocco monolitico incapace di aspirazioni universali alla giustizia e incapace di dialogo con altre visioni del mondo…

Cito un paio di passi significativi: «Un secolo fa Gilbert Keith Chesterton descriveva così l’impasse fondamentale della critica alla religione: ‘Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità, finiscono per combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa […] Il laicismo non ha distrutto le cose divine, ha distrutto le cose non divine – se questo può essergli di conforto’. Non potremmo dire lo stesso dei difensori della religione? Quanti fanatici protettori della fede hanno cominciato con l’attaccare ferocemente la cultura laica contemporanea e hanno finito col rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Analogamente molti partigiani della causa liberale sono così impazienti di lottare contro il fondamentalismo antidemocratico che finiranno per gettar via proprio la libertà e la democrazia così da poter combattere meglio il terrorismo. Se i ‘terroristi’ sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri antiterrorismo sono pronti a distruggere il loro mondo democratico per odio dell’altro mondo musulmano. Alcuni di loro amano a tal punto la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura, e cioé la somma degradazione di questa dignità.

E non potremmo dire lo stesso anche di quelli che hanno aderito alla recente campagna europea contro la ‘minaccia dell’immigrazione’? Nel loro fervore di proteggere l’eredità giudaico-cristiana, i nuovi zeloti sono pronti a sacrificare il vero nucleo di questa eredità: ogni individuo ha un accesso immediato all’universalità (dello Spirito Santo, o, oggi, dei diritti umani e della libertà); e io posso prendere direttamente parte a questa dimensione universale, indipendentemente dalla mia particolare posizione all’interno dell’ordine sociale globale. Le ‘scandalose’ parole di Cristo nel Vangelo di Luca non puntano forse nella direzione di una tale universalità che ignora ogni gerarchia sociale? ‘Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre, e la moglie, e i fratelli e le sorelle e finanche la sua propria vita, non può essere mio discepolo’. (Luca 14:26) I legami familiari rappresentano qui una qualsiasi particolare relazione sociale, etnica o gerarchica, che determina il nostro posto nell’Ordine globale delle Cose. L’ ‘odio’ imposto da Cristo non è quindi l’oggetto dell’amore cristiano; ne è bensì l’espressione diretta: è l’amore stesso che ci impone di ‘slegarci’ dalla comunità organica nella quale siamo nati; o, come disse San Paolo, per un cristiano non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci. […]

Gli ambiti di lotta in cui non ci sono ‘né uomini né donne, né ebrei né greci’ sono molti, dall’ecologia all’economia.

Qualche mese fa un piccolo miracolo è accaduto nella Cisgiordania occupata: alle donne palestinesi che dimostravano contro il Muro si è unito un gruppo di lesbiche ebree di Israele. L’iniziale diffidenza reciproca si è dissipata nel primo confronto con i soldati israeliani a guardia del Muro, e una sublime solidarietà si è manifestata quando una donna palestinese abbigliata in modo tradizionale ha abbracciato una lesbica ebrea con i capelli viola pettinati a punta; un simbolo vivente di come dovremmo condurre la nostra lotta.»

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Identità: contenuto o contenitore?

La psicoanalisi ha  messo in luce alcune modalità con cui l’identità si costruisce a partire dall’esperienza infantile riflettendo sull’importanza degli oggetti parziali e della loro riunificazione (Klein), sull’oscillazione tra modalità di percezione del mondo scisse e frammentate e capacità di contenimento (réverie) e sulla metabolizzazione psichica (Bion), sull’integrazione delle pulsioni distruttive (Winnicott), sulle dinamiche dell’attaccamento (Bowlby) e della frustrazione (Lacan), sul doversi districare tra doppi vincoli confusivi (Bateson).  Questi diversi vertici di osservazione ci raccontano il grande lavorio di adattamento del neonato che deve imparare i codici corporei, affettivi, comunicativi grazie ai quali interagire con il suo habitat e con il mondo.

Inoltre la psicoanalisi contemporanea nella sua modulazione relazionale ha ormai abbandonato l’idea di una rigida divisione tra mondo interno e mondo esterno e si è aperta sempre più a considerare come ‘sintomi storici’  le forme contemporanee del disagio della civiltà.

L’equilibrio identitario è ovviamente un equilibrio dinamico e paradossale, un’apertura sul mondo che consente relazioni non dominate dalla paura e dall’ombra dell’altro, implica cioè la capacità di metabolizzare l’angoscia generata da ciò che è nuovo e inaspettato. Ritmicamente, fin dalla più tenera infanzia, impariamo – se tutto va bene – a ripristinare l’equilibrio, a metabolizzare le angoscie di frammentazione, a stabilire un’alternanza tra sonno e veglia, a imparare ad apprendere.

Le identificazioni parziali che poi portano all’identità adulta possono essere funzionali a questa presenza a sé e al mondo oppure corazze difensive animate dalla paura. Ciò che conta è ritenere questa idea dell’identità come luogo di differenziazione creativa e non di identificazione difensiva. In questo senso, l’identità più che un contenuto appare come un contenitore. Questa è stata del resto una delle grandi intuizioni di Jung quando immagina il passaggio di epoca come la trasformazione di un contenuto cristiano (i Pesci) nel contenitore del segno dell’ Acquario…

Qui l’intuizione della psicoanalisi incontra con fertilità la ricerca antropologica: i miti di fondazione e di creazione rappresentano sovente questa capacità di contenimento come cruciale per la definizione di ciò che è umano. Questa rappresentazione, in tutte le sue varianti omeomorfe rappresenta un’autentica tensione transculturale che vive nel cuore di moltissime culture. (vedi anche il post sulla zucca di Komba).

Questa tensione si potrebbe definire come ciò che all’interno di una cultura tende alla consapevolezza di sé in quanto codice  in fieri, aperto e parziale: lingua, parola, comunità parlante, ‘anima cosciente’. Che tende dunque a sapere la contingenza del proprio essere nel mondo che include il potenziale pre-individuale della vita.

L’unica politica non ridotta a mera conservazione delle istituzioni esistenti è quella che affronta la vita dall’angolo di visuale della specie umana e delle soglie mobili che la definiscono… la vita psichica non può attualizzare il proprio potenziale pre-individuale che spingendolo al livello del transindividuale, cioè traducendolo e moltiplicandolo nella vita collettiva. [Esposito, 2004]

Detto diversamente: la tensione transculturale interna ad ogni cultura sarebbe un’invariante umana (più o meno fluida e declinata in molteplici modi) mossa dall’’aspirazione all’umanizzazione cioè alla creazione continua della comunità umana, alla ‘fabbricazione’ dell’umano. Slavoj Žižek lo dice così:

La cultura particolare che tenta disperatamente di difendere la propria identità deve reprimere la dimensione universale presente nel suo cuore, ossia il divario tra il particolare (la sua identità) e l’universale che la destabilizza dall’interno. [Žižek 2007]

 Aggiungerei inoltre che le forme di logica totalizzante sono molteplici, razionali e irrazionali, sia localiste che universalizzanti. Quello che i miti di creazione sovente ci raccontano in una miriade di variazioni è la nascita di una identità-contenitore che è al contempo una fondazione anti-immunitaria. In una monade senza aperture non si dà comunità, non si dà rischio e avventura comune. L’idea di una identità-contenitore è la forma narrativa che con molte varianti ritroviamo sia nei miti di creazione che nelle teorie psicoanalitiche e che complementano l’altra grande narrazione mitica dello smembramento originario (Prajapati, Gayomart, Oludumaré, Ymir, Tiamat, Urano, la Shevirat della Cabala, il mitico ‘Padre dell’orda’ freudiano…). Nenahce il contenitore può restare ‘identico’ a sé stesso. Perché ci sia vita, creazione, deve rompersi, o versare, o riscoprirsi capace di contenere cose nuove. E’ la ‘riparazione dei vasi’, il tikkun,  il sacrificio che rimette insieme i frammenti, il vino nuovo in otri nuovi, o la scoperta che i rizomi permettono ricombinazioni vitali anche senza una apparente radice unica.

Per Tobie Nathan la rappresentazione di un nucleo cosmico disincarnato, privo di narrazione è assai negativa ed evoca tra l’altro proprio quei fantasmi di fusione oceanica per i quali anche Freud aveva ben poca simpatia. Ad altri sguardi – penso al pensiero di Raimon Panikkar sulla a-dualità cosmoteandrica –   la dimensione del cosmo non è parsa così aliena dall’umano. E un contenitore non è meno consistente per il fatto di contenere (avere al suo interno uno spazio capace di accogliere).

Ma per tornare alla disarticolazione o decostruzione culturale, va detto che, sebbene il confronto con una vita totalmente disarticolata dalle sue forme culturalizzate si realizzi solo in casi estremi di persecuzione disumanizzante (di cui però la storia abbonda), la tendenza a un processo di sradicamento è un dato globale.

Se l’identità fatta di forme stabili, è sempre più problematica ciò fa sì che il rimpianto per le forme della tradizione possa generare il desiderio di una ‘rifondazione’ difensiva. Una rifondazione sostanzialmente immaginaria che trascura il contatto vitale proprio con le narrazioni (tradizionali ed emergenti) con cui molte culture immaginano l’umanizzazione (dunque il rapporto con il disumano o con il non umano).

Grazie a queste che abbiamo definito tensioni transculturali, grazie cioè alle narrazioni che ci parlano di un’identità contenitore possiamo andare oltre il contenuto visibile per risalire alle sorgenti del processo di creazione necessario proprio per far fronte efficacemente alla perdita di radici.

Il mondo immaginale di cui parlano molte tradizioni contiene il segreto di contenitori invisibili che animano le forme,  di luoghi invisibili rivelati solo «agli occhi del cuore»  di cui –  come diceva Corbin – «il centro è insieme il contenuto e il contenitore» .

Di fronte alle sfide comuni del presente limitarsi a pratiche di presa in carico della questione migrante nella prospettiva dell’integrazione e dell’assimilazione più o meno obbligata, puntare solo su un’identità prosaica (anziché poetico-religiosa) puntare insomma solo sui ‘contenuti’ rischia di generare nuove forme di ghettizzazione e rivendicazione.

Nella prospettiva in cui ogni storia può essere animata e unica, l’idea di un’’identità contenitore rispetta invece il pluralismo delle appartenenze accogliendo creativamente la qualità specifica dell’umano, tanto influenzabile proprio perché privo di schemi ad azione fissa, ma capace di far proprie non solo le memorie consolidate ma anche le tracce di una memoria perduta e di una memoria del futuro.

 

 

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Visioni dell’identità (uno: identità e feticci)

Tutti nasciamo in un dato contesto, e in questo contesto sperimentiamo tutta una serie di contingenze che potemmo definire sistemiche o karmiche, che esse siano culturali, familiari o storiche. Se sono nato in Ghana,  i vincoli economici, sociali e culturali che contribuiranno alla mia ‘fabbricazione’  come essere umano saranno diversi da quelli di qualcuno che nasce in Georgia o in India. Tuttavia, e in ogni cultura, il tema dell’avvento di una maggior consapevolezza personale e collettiva (l’individuazione junghiana, l’autocoscienza piuttosto che l’iniziazione nelle culture tradizionali o la liberazione in una prospettiva secolare o religiosa) sarà legato a una complessa dinamica di memoria e oblio che permetterà di conquistare una posizione personale in grado di modulare gli equilibri che strutturano la vita psichica.

Soggetti si diventa, e si diventa tali nell’attraversamento cosciente e nel confronto con ciò che ci vincola e irretisce, con ciò che appunto ci rivela il nostro assoggettamento ma anche la nostra possibilità di liberazione. La filosofia occidentale ha rilevato con sfumature diverse che diventiamo ‘soggetti’ nella misura in cui ci confrontiamo con i vincoli e le contraddizioni della nostra epoca ma anche che nasciamo a noi stessi nella misura in cui sappiamo dare inizio a qualcosa.

Ma se l’eredità dialettica dell’Occidente ci dice che è dall’attraversamento dei conflitti che emergiamo come soggetti, cosa accadrebbe in una società in cui l’assoggettamento divenisse ego-sintonico, scevro da conflittualità? E questo evento non fa forse parte del nostro immaginario apocalittico? Come rilevano sia Giorgio Agamben [2006] che Slavoj Žižek [2005], uno dei principali pericoli nel prevalere globale dell’economia e della finanza è che esse sono letteralmente ‘senza mondo’, che decostruiscono le nostre mappe e così facendo rendono la vita stessa  priva di significato. L’economia infatti non è di per sé né una ‘visione del mondo’, né una civiltà, ed è strettamente legata allo sviluppo  della tecnoscienza. Forse solo la diffusione globale di un principio mortifero e ripetitivo permetterà l’attivazione e il consolidamento di mappe cognitive inedite, consapevoli e vitali e di insospettate ricombinazioni.

Per ora, l’esigenza dello sviluppo a tutti i costi, intrinseca alle esigenze dell’accumulo dei capitali, genera il corto circuito del consumo infinito, e accresce la tentazione di immaginare il godimento come appetito infinito e sempre rinnovabile, sostanzialmente ‘drogato’, da una fascinazione  che non ha nulla da invidiare a quella delle ‘sostanze’. [Recalcati 2010]. I feticci (e i ‘proprietari’ invisibili che li animano) non sono un’esclusività delle società tradizionali.

(il disegno è di Daniel Maja)


 

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Salvateci dai salvatori (e le vacanze in Grecia!)

Sempre più ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso: le elezioni ‘democratiche’ devono garantire le scelte liberiste del mercato se no l’establishment economico europeo grida «’arimortis’ – è anti-politica, è una scelta anti-democratica!» E’ il gioco delle tre carte del capitalismo contemporaneo in cui la solidarietà è  un disvalore, e di un’organizzazione sociopolitica in cui la difesa dell’equità sociale è un debole fantasma. Una situazione che ricorda quei doppi messaggi di una certa schizo-educazione: sei  libero di scegliere, ma guai se scegli male. A questo proposito segnalo un bell’articolo di Slavoj Zizek sulla London Review of Books (ne ho trovato una traduzione in rete di Maurizio Amateis): «Immaginate una scena di un film distopico che raffigura la nostra società nel prossimo futuro. Le guardie di pattuglia in divisa in strade mezze vuote del centro durante la notte, a caccia di immigrati, criminali e vagabondi. Coloro che trovano vengono brutalizzati. Sembra una fantastica immagine di Hollywood, è una realtà nella Grecia di oggi. Di notte, vigilantes in camicia nera del negazionista neo-fascista movimento Alba dorata – che ha preso il 7 per cento di voti nell’ultimo turno di elezioni, e ha avuto il sostegno, si dice, del 50 per cento della polizia ateniese – sono in giro a pattugliare strade e a picchiare tutti gli immigrati che possono trovare: afghani, pakistani, algerini. E’ così che l’Europa si difende nella primavera del 2012. Il problema della difesa della civiltà europea dalla minaccia degli immigrati è che la ferocia della difesa è una minaccia maggiore per la ‘civiltà’ di qualsiasi quantità di musulmani. Con difensori amici come questi, l’Europa non ha bisogno di nemici. Cento anni fa, GK Chesterton articolava la situazione di stallo in cui si trovano i critici della religione: ‘Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità finiscono per gettar via la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa … I secolaristi non hanno distrutto le cose divine, ma, se questo li può confortare, hanno distrutto le cose secolari ‘. Molti guerrieri liberali sono così ansiosi di combattere il fondamentalismo anti-democratico che limitano la libertà e la democrazia pur di combattere il terrore. Se i ‘terroristi’ sono pronti a distruggere questo mondo per amore di un altro, i nostri guerrieri contro il terrore sono pronti a distruggere la democrazia per odio contro l’altro musulmano. Alcuni di loro amano a tal punto la dignità umana che sono pronti a legalizzare la tortura per difenderla. Si tratta di una inversione del processo attraverso il quale i difensori fanatici della religione iniziano attaccando la cultura secolare contemporanea e finiscono per sacrificare il proprio credo religioso nel loro desiderio di eliminare gli aspetti della laicità che odiano. Ma nella Grecia anti-immigrati i difensori non sono il pericolo principale: sono solo un sottoprodotto della minaccia vera, la politica di austerità che ha causato situazione della Grecia. La prossima tornata di elezioni greche si terrà il 17 giugno. L’istituzione europea ci avverte che queste elezioni sono cruciali: non solo il destino della Grecia, ma forse il destino di tutta l’Europa è in bilico. Un risultato – quello di destra che essi sostengono – consentirebbe al processo doloroso ma necessario di recupero attraverso la austerità per continuare. L’alternativa – se la ‘sinistra estrema’ del partito Syriza vincesse – sarebbe un voto per il caos, la fine del mondo europeo come lo conosciamo.»

Sempre più ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso le elezioni ‘democratiche’ devono garantire le scelte liberiste del mercato se no l’establishment economico europeo grida «’arimortis’ – è un scelta populista, è una scelta anti-democratica!» E’ il gioco delle tre carte del capitalismo contemporaneo in cui la solidarietà è quasi un disvalore, e di un’organizzazione statale in cui la difesa dell’equità è molto debole. Ricorda quei doppi messagi psiotizzanti di una certa educazione: Siamo  liberi di scegliere, a condizione di fare la scelta giusta.

Zizek sottolinea che di fronte alle nuove elezioni greche l’establishment è in preda al panico come avviene di solito quando una scelta reale è possibile:

 «il caos, la povertà e la violenza seguiranno, dicono, se la scelta sbagliata verrà fatta. La semplice possibilità di una vittoria di Syriza si dice che abbia creato increspature di paura sui mercati globali. La prosopopea ideologica ha fatto il suo tempo: i mercati parlano come se fossero persone, esprimendo la loro ‘preoccupazione’ su che cosa accadrà se le elezioni non riescono a produrre un governo con il mandato di proseguire con il programma di austerità fiscale e riforme strutturali di UE e FMI. (…) Se Syriza vince, l’istituzione europea si augurerà di farci imparare nel modo più duro che cosa accade quando viene effettuato un tentativo di interrompere il circolo vizioso di complicità reciproca tra tecnocrazia di Bruxelles e populismo anti-immigrazione. Questo è il motivo per cui Alexis Tsipras, leader di Syriza, ha chiarito in una recente intervista che la sua prima priorità, dovesse Syriza vincere, sarà quello di contrastare il panico: ‘La gente deve vincere la paura. Essi non soccomberanno, non saranno ricattati’. Syriza ha un compito quasi impossibile. La loro non è la voce della ‘follia’ di estrema sinistra, ma della ragione contro la follia dell’ideologia del mercato. Con la loro disponibilità a governare, hanno bandito la paura della sinistra di prendere il potere, hanno il coraggio di chiarire la confusione creata da altri. Avranno bisogno di esercitare una formidabile combinazione di principi e pragmatismo, di impegno democratico e disponibilità ad agire con rapidità e decisione, ove necessario (…)»

«Nelle sue “Note sulla definizione di cultura”, TS Eliot ha osservato che ci sono momenti in cui l’unica scelta è tra eresia e non-fede – vale a dire, quando l’unico modo per mantenere viva una religione è quello di eseguire una divisione settaria. Questa è la posizione in Europa oggi. Solo una nuova ‘eresia’ – rappresentata in questo momento da Syriza – può salvare ciò che ancora vale dell’eredità europea: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà ecc. L’Europa egualitaria finirà se Syriza sara’ sconfitta e avremo un’Europa con i valori asiatici – che, naturalmente, non ha nulla a che fare con l’Asia, ma tutto a che fare con la tendenza del capitalismo contemporaneo di sospendere la democrazia.»

«Ci sono due storie principali sulla crisi greca nei mezzi di comunicazione: la storia tedesco-europea (i greci sono irresponsabili, pigri, spese folli, evasione fiscale etc, e devono essere portati sotto controllo e imparare la disciplina finanziaria) e la storia greca (la nostra sovranità nazionale è minacciata dalla tecnocrazia neoliberista imposta da Bruxelles). Quando divenne impossibile ignorare la difficile situazione del popolo greco, una terza storia è emersa: i greci sono ora presentati come vittime umanitarie che hanno bisogno di aiuto, come se una guerra o una catastrofe naturale avessero colpito il paese. Anche se tutte e tre le storie sono false, la terza è senza dubbio la più disgustosa. I greci non sono vittime passive: sono in guerra con l’establishment economico europeo, e ciò di cui hanno bisogno è la solidarietà nella loro lotta, perché è anche la nostra lotta.La Grecia non è un’eccezione. E ‘uno dei principali terreni di test di un nuovo modello socio-economico della domanda potenzialmente illimitata: una tecnocrazia depoliticizzata in cui i banchieri e altri esperti sono autorizzati a demolire la democrazia. Salvando la Grecia dai suoi cosiddetti salvatori, noi salvaremo l’Europa stessa.»

Zizek conclude con una bella idea: i greci hanno bisogno della nostra solidarietà: «non solo un trattamento dignitoso da parte di ogni altro paese europeo, ma anche delle idee più creative, come la promozione del turismo solidale di questa estate

Sul tema merita anche lettura il post di Mauro Poggi su Lagarde e altri volkaniani

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L’universale non è l’uniforme!

E’ evidente che il concetto  di ‘universale’ è in gran parte una produzione dell’occidente ed è anche stato utilizzato come sponda egemonica rispetto alla diversità culturale. Nasce in occidente da coordinate che includono la formazione del concetto di ‘essere’ nella filosofia greca, una sensibilità particolare che nasce col cristianesimo, lo sviluppo del metodo e del pensiero scientifico al servizio delle logiche dell’espansione tecno-mercantile che essi hanno garantito. Come evidenzia bene François Julien per esplorare criticamente il nostro concetto di universale bisognerebbe metterlo in risonanza con altre tre aree concettuali: l’uniforme (forse l’ombra più temibile dell’universale), la dimensione della singolarità e la prassi del comune (la ‘comunità’ come compito – munus –  non definito a priori). E con il pensiero di altre culture costruite intorno all’impermanenza o al mutamento.

Le culture primordiali sovente parlano dell’universale in termini mitici, o poetici. Ci avviciniamo alla comprensione dell’universale degli altri quando per esempio ascoltiamo la narrazione dei loro miti di creazione. La creazione del ‘primo uomo’ o del ‘mondo’ è comune alle culture più diverse. L’identità nei miti di creazione è tutto fuorché identitaria! Si gioca tra lo smembramento dell’Uno e la costruzione di un’identità contenitore.

Si potrebbe inoltre pensare la tensione trasnculturale  come ciò che all’interno di una cultura tende alla consapevolezza di sé in quanto cultura, lingua, parola, comunità parlante, dunque nella consapevolezza di una contingenza (spesso legata alla presenza di altri) che sa contemplare la dimensione transpersonale includendo in tal modo il potenziale pre individuale della vita.

Come ha scritto Roberto Esposito:

 L’unica politica non ridotta a mera conservazione delle istituzioni esistenti è quella che affronta la vita dall’angolo di visuale della specie umana e delle soglie mobili che la definiscono… la vita psichica non può attualizzare il proprio potenziale pre-individuale che spingendolo al livello del transindividuale, cioé traducendolo e moltiplicandolo nella vita collettiva.”

Detto diversamente: la tensione transculturale interna ad ogni cultura sarebbe un’invariante umana (cristallizzata o fluida, declinata in molteplici modi) mossa dall’’aspirazione all’umanizzazione cioé alla creazione continua della comunità umana.

Anche Slavoj Žižek lo dice con efficacia:

 La cultura particolare che tenta disperatamente di difendere la propria identità deve reprimere la dimensione universale presente nel suo cuore, ossia il divario tra il particolare (la sua identità) e l’universale che la destabilizza dall’interno. 

Aggiungerei inoltre che le forme di logica totalizzante sono molteplici, razionali e irrazionali, sia localiste che universalizzanti. Quello che i miti di creazione sovente ci raccontano in una miriade di variazioni è la nascita di una identità-contenitore che è al contempo una fondazione anti-immunitaria. In una monade senza aperture non si dà comunità, non si dà rischio e avventura comune… L’identità-contenitore è la forma narrativa che con molte varianti ritroviamo sia nei miti di creazione che nelle teorie psicoanalitiche e che complementano l’altra grande narrazione mitica dello smembramento originario.

Per l’etnopsichiatria di Tobie Nathan – più problematicamente – ogni tensione universalizzante, ogni scioglimento dai vincoli dell’appartenenza, tenderebbe invece sempre alla prevaricazione. Chi viene “sgusciato” dal suo involucro etno-culturale viene considerato ad alto rischio di frammentazione. Nei rituali di iniziazione la persona “momentaneamente disarticolata” deve essere al più presto  “fissata” attraverso la re-integrazione nel respiro creativo della narrazione dei miti e dei misteri.

In caso contrario il rischio è che la nuda vita deculturalizzata, priva cioè di narrazioni tradizionali si riduca a un nucleo privo di difese e pericolosamente confuso con una sorta di totalità indifferenziata. Scrive a questo proposito Nathan: “Questo nucleo, pensato come originario o primitivo non è fondamentalmente diverso dal cosmo che lo circonda e rischia di confondervisi, portando all’annientamento del soggetto.” 

Questa rappresentazione tutta negativa di un nucleo disincarnato smarrito in un cosmo privo di narrazioni evoca tra l’altro proprio quei fantasmi di fusione oceanica per i quali anche Freud aveva ben poca simpatia. Ad altri sguardi la dimensione del cosmo non è parsa così aliena dall’umano. E il vuoto può anche essere la condizione necessaria per creare. Ma per tornare alla disarticolazione o decostruzione culturale, che Nathan teme, va detto che sebbene il confronto con una vita totalmente disarticolata dalle sue forme culturalizzate si realizzi solo in casi estremi di persecuzione disumanizzante (di cui però la storia abbonda) – la tendenza a un processo di sradicamento è un dato globale.

Nelle realtà migranti (oltre alla difficoltà ad applicare un dispositivo complesso come quello etnopsichiatrico) emerge oggi con forza un dato:  il migrante viene sovente colpito dal male proprio sotto le forme della nuda vita. Di fronte alla sfida comune dell’alienazione limitarsi a una re-integrazione culturale sovente immaginaria e/o totalizzante rischia di generare nuove forme di ghettizzazione e rivendicazione. Se l’identità è pensata in termini di forme stabili, di contenuti è sempre più problematica ciò fa sì che il rimpianto per le forme della tradizione possa generare il desiderio di un’immaginaria “rifondazione” difensiva che trascura il contatto vitale proprio con le narrazioni con cui molte culture immaginano l’umanizzazione (dunque il rapporto con il disumano o con il non umano), grazie a quelle che abbiamo definito tensioni transculturali, grazie cioè alle narrazioni che ci parlano di un’identità contenitore. La risposta sta forse nell’andare oltre il visibile della forma (del contenuto)

Nella prospettiva in cui ogni storia può essere animata e unica, ‘l’identità contenitore’ permette il pluralismo delle appartenenze accogliendo creativamente la qualità specifica dell’umano, tanto influenzabile proprio perché privo di schemi ad azione fissa, ma anche capace di trasformare e trasmettere l’esperienza.

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“I figli degli uomini” di Alfonso Cuaròn (Nuda vita V)

Siamo tutti portatori di zoé, di nuda vita. Rappresentare la migrazione come un reato da perseguire penalmente significa costruire una narrazione “biopolitica” immunitaria che nega la “vita” , l’interdipendenza e la potentia  di cui ogni essere umano è portatore.

 La discriminazione e l’immunitarismo nei confronti dei migranti rappresentano una forma di esclusione dalla quale ci illudiamo di essere appunto “immuni”. Emblema di questa esclusione è il Centro di Identificazione ed Espulsione, manifestazione  di illibertà che scegliamo di ignorare senza renderci conto che in una certa misura l’intero pianeta sta diventando un CIE.

Il film di Alfonso Cuaròn “I figli degli uomini” è stato più volte commentato  come paradigmatico anche dal filosofo lacaniano Slavoj Zizek. Il film è ambientato in una Inghilterra del non-troppo-distante futuro, in una cupa atmosfera biopolitica in cui i conflitti sociali si collocano sul versante della normatività e della sicurezza. Gabbie e campi di concentramento per gli immigrati clandestini per consentire al resto della popolazione di perseguire il life-style consumista o estetizzante.  Ma il cuore della vicenda si gioca nel conflitto tra gruppi di potere antagonistici, tutti alla ricerca di una soluzione all’infertilità globale che ha colpito il mondo. Un  virus ha infatti condannato l’umanità all’estinzione. In una narrazione creativa del mito cristiano sarà proprio una clandestina la prima donna a restare miracolosamente incinta, e a doversi nascondere e fuggire quando mette alla luce il figlio.  Viene infatti  inseguita sia dalla polizia che dai rivoluzionari perché le due parti vogliono farne un’icona identitaria. Il ruolo di San Giuseppe sarà assunto da un ex attivista politico. I due partono alla ricerca di una mitica nave di scienziati che starebbero cercando una cura all’infertilità umana. La via  verso il mare passa proprio per un Campo di concentramento per migranti, dove intemperanze, fondamentalismi e violenze si mescolano a umanità e amore. Scrive Zizek:

Questi due tratti – la permissività edonistica con le sue nuove forme di apartheid sociale e il controllo basato sulla paura – sono forse tipici delle nostre società? Il colpo di genio del regista è questo: “Molte storie sul futuro”, ha detto Cuarón in un’intervista, “immaginano un mondo dominato da un Grande fratello, ma io credo che sia un’idea novecentesca della dittatura. La tirannia del ventunesimo secolo si chiama `democrazia”‘. Per questo le persone che governano il mondo nel suo film non sono grigi burocrati totalitari in uniforme, come quelli di Orwell, ma amministratori illuminati, colti e democratici. I figli degli uomini non è un film sulla ste­rilità come problema biologico. La sterilità di cui parla Cuarón è quella diagnosticata molto tempo fa da Friedrich Nietzsche quando intuì che la civiltà occidentale si stava dirigendo verso “l’ultimo uomo”, una creatura apatica senza passioni né impegni. Incapace di sognare e stanca della vita, l’ultimo uomo non corre rischi e cerca solo comodità, sicurezza e tolleranza reciproca: “Un po’ di veleno, ogni tanto, per fare sogni gradevoli. E molto veleno, alla fine, per una morte gradevole. Hanno i loro piccoli piaceri per il giorno e i loro piccoli piaceri per la notte, ma sempre badando alla salute.

 Altrove Zizek fa un collegamento interessante tra biopolitica e edonismo spirituale, sottolineando il pericolo che alcune forme di meditazione  funzionino come placebo narcisistica o come indoratura della amara pillola della perdita di desiderio, di “presenza” e di mondo  dell’”ultimo uomo”. Rischierebbero cioè di diventare funzionali a un sistema che richiede un perenne adattamento alle sue leggi, un’ennesima versione dell’“oppio dei popoli”.

E’ una critica che merita una riflessione attenta.

E’ innegabile che la tentazione di utilizzare l’aspirazione religiosa per il dominio (egoico o sociale) è testimoniata dalla storia. E’ anche vero, però, che molti di coloro che si sono avventurati sulle vie della ricerca spirituale hanno lasciato tracce volte a evitare questa tentazione. Da più parti si avverte l’esigenza di riprendere una riflessione su mistica e politica.  La sfida oggi è quella di riconnettere adualisticamente impegno e non-attaccamento, di concepire la politica in un “mezzo senza fine” (l’espressione è di Agamben) vincolando la qualità dell’impegno a quella della presenza più che delle “buone intenzioni” per cui troppo spesso “il fine giustifica i mezzi”. Si tratta insomma di connettere pensiero e azione, prassi e contemplazione e di immaginare anche la meditazione come propizia alla pratica politica e al nutrimento della “potentia” di ogni vivente.

Vorrei del resto sottolineare come nel film di Cuaròn la clandestina portatrice di una nuova inaspettata fertilità sia specchio della comune nuda vita, della vita libera e priva di qualificazioni a cui rinunciamo scegliendo il suo povero sostituto: una vita in cui il conflitto e la deprivazione sono parzialmente occultate e parzialmente scaricate sui diversi e sugli stranieri.


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Pulsione, desiderio, aspirazione.

In risposta al commento di Lino al post sul deposito del desiderio direi che ho provato a immaginare una sorta di tri-articolazione di pulsione, desiderio, aspirazione. Per cominciare dalla differenza tra desiderio e pulsione direi che il desiderio (anche solo sul piano immaginario) è relazionale, è desiderio dell’altro (con tutte le sue eventuali complicazioni ma anche con un’apertura costitutiva), mentre la pulsione si dà in una ripetizione che ci interpella nell’urgenza di soddisfare (di scaricare) ciecamente una tensione. La pulsione è un desiderio a breve termine, un desiderio con data di scadenza  radicato in un bisogno. Recalcati e Zizek hanno raccontato bene  come la dimensione della soddisfazione pulsionale (il ‘godimento’) si intrecci con la logica capitalistica e con i suoi ‘feticci’. L’apparente e decantata superiorità del liberismo occidentale si riduce sovente – nella dinamica a-politica delle forme del dominio economico – alla costruzione antropologica di un bizzarro ibrido, fabbricato come essere a un tempo frustrato  e desiderante, desiderante in quanto frustrato e frustrato in quanto l’aspirazione viene sempre obbligata a spegnersi nella ripetizione del circuito pulsionale. Le narrazioni della pulsione sono povere o inesistenti. E’ in fondo la cecità della pulsione che fa problema al desiderio. Se il desiderio è un ponte che costruisce ‘illusioni’ relazionali sostenibili, l’aspirazione ne costituirebbe il respiro paradossale, un rizoma relazionale che riconosce i propri attaccamenti ma non si esaurisce in nessun ‘oggetto’. Aspirazione come desiderio ‘liberato’. Si potrebbe anche parlare di una tensione relazionale eco-sistemica. L’aspirazione sarebbe centrata sull’ ‘essere’ e non sull’ ‘avere’. Naturalmente l’aspirazione può essere troppo disincarnata e astrattamente ideale quanto la pulsione gretta e prigioniera della ripetizione. L’ombra dell’ aspirazione sarebbe una sorta di inflazione psicologica o spirituale. Il pericolo dell’aspirazione – per esempio dell’aspirazione alla verità – è quello di ricadere inavvertitamente in un attaccamento un po’ cieco per la ‘superiorità’ delle nostre costruzioni. Per dirla con Panikkar: “Il pericolo nasce nella possibile confusione tra il nostro desiderio di capire qualcosa perché presumiamo (a priori) che la Realtà sia (dovrebbe essere) comprensibile e l’ aspirazione a trovare un senso alla nostra vita e a tutta la realtà.” Senza dimenticare che la vita di sussistenza e i suoi bisogni, le stesse pulsioni – se si articolano con il desiderio e l’aspirazione – possono trovare una diversa collocazione. Da questo punto di vista allora si potrebbe dire che il compito del desiderio è una sorta di creazione ex nihilo che non idealizza ma non avvillisce. D’altro canto si potrebbe anche immaginare l’aspirazione come il cuore nascosto del desiderio, quella tensione desiderante ) che continua a desiderare e non si ‘esaurisce’  anche quando si è ottenuto ciò che si desiderava. Un esempio secolare di ‘aspirazione’ potrebbe essere l’orizzonte (lontano) della giustizia e della libertà. Penso che approfondirò alcuni di questi temi nei prossimi post anche perché avevo scritto una sezione del libro che poi ho tagliato. Mi farebbe molto piacere discuterne insieme.

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Žižek su razzismo multiculturale e nuda vita

A volte mi piace leggere contemporaneamente autori che espongono idee molto diverse se non opposte. Mi aiuta a rispettare la complessità del pensiero e a soppesare meglio le proposizioni specie degli autori più genialmente seduttivi… In questo momento, tra le altre cose, sto leggendo “Vivere alla fine dei tempi” di Žižek.  In generale mi sembra che anche  Žižek sia un autore che porta Pollicino nel labirinto del bosco e che si debba fare un certo lavoro per ritrovare il camino. Ne vale dunque la pena… Condivido qualche brano sulla questione del razzismo multiculturale.

«Se vogliamo osservare l’ideologia contemporanea in azione tutto quello che dobbiamo fare è guardare uno dei programmi di viaggio di Michael Palin sulla BBC: l’atteggiamento di base di assumere una distanza benevola e ironica nei confronti di usi e costumi diversi e di divertirsi a osservare le singolarità del luogo, ponendo allo stesso tempo un filtro ai dati realmente traumatici, equivale a ciò che c’è di più essenziale nel razzismo postmoderno. Quando ci mostrano scene di bambini affamati in Africa, con un appello a fare qualcosa per aiutarli, il messaggio ideologico di base è qualcosa del tipo: «non pensate, non occupatevi di politica, dimeticate le vere cause della loro povertà e invece agite, mandate soldi e così non avrete bisogno di pensare!»

«Possiamo identificare almeno tre forme di razzismo contemporaneo. Primo c’è il vecchio stile e imperterrito rifiuto dell’Altro (dispotico, barbaro, ortodosso, musulmano, corrotto, orientale…) in nome di valori autentici (occidentali, civili, democratici, cristiani…). Poi c’è il razzismo ‘riflessivo’ e politicamente corretto: la percezione multiculturalista ad esempio dei Balani come terra di orrori etnici e intolleranza, di passioni primitive, irrazionali e bellicose, a differenza del processo psotnazionale liberaldemocratico di risolvere i conflitti per mezzo di negoziati razionali, di compromessi e di mutuo rispetto. Qui il razzismo è per così dire elevato alla seconda potenza: è attribuito all’Altro, mentre noi occupiamo la posizione di un benevolo osservatore neutrale, giustamente sgomenti per gli orrori che accadono laggiù. Infine c’è il razzismo rovesciato, che celebra l’autenticità esotica dell’Altro balcanico, come nell’idea che i serbi, contrariamente agli inibiti e anemici europei occidnetali, dimostrino ancora una prodigiosa gioia di vivere.»

Žižek fa una critica molto acuta del cosiddetto multiculturalismo ‘tollerante’ (che tollera la diversità) non solo come doppio messaggio ma come ‘falso universale’ in cui la libera scelta ci viene data se facciamo la scelta giusta (come nella questione del velo): gli altri sono tollerati solo se accettano la nostra società. «Come spiega Sara Ahmed: ‘questo implica un’interpretazione che vede nell’altro un insulto al nostro amore multiculturale: come dire: vi abbiamo dato il ns amore e voi lo insultate vivendo separati da noi? Questo comporta una minaccia implicita: diventate noi, diventate come noi o altrimenti andatevene[…]I migranti fanno ingresso nella coscienza nazionale come ingrati. Ironicamente il razzismo viene attribuito al fallimento dei migranti di ricevere il nostro amore. L’egemonia monoculturale comporta la fantasia che il multiculturalismo sia l’egemonia.’»

Žižek aggiunge che formulando così il problema si propone implicitamente un ‘vero’ multiculturalismo (che riporta però all’idea di una supposta meta-cornice neutra universale che permetterebbe a ogni cultura particolare di affermare la propria identità). Bisognerebbe invece «bisogna cambiare i termini della questione e introdurre un universale del tutto differente: quello di un conflitto che invece di avere luogo tra comunità avviene all’interno di ogni contesto culturale così che il legame transculturale tra le comunità sia quello di una lotta condivisa.»

A questo proposito mi sembra che Žižek citi in modo molto pertinente il nostro Agamben:

«La distinzione tra quelli che sono inclusi nell’ordine giuridico e l’homo sacer non è semplicemente orizzontale, una distinzione tra gruppi di persone, ma è sempre più anche una distinzione ‘verticale’ tra due modi (sovrapposti) in cui le stesse persone possono essere trattate. In parole povere: sul piano della Legge, siamo trattati come cittadini, soggetti giuridici; ma sul piano del suo osceno supplemento superegoico siamo trattati come homo sacer. Il vero problema non è tanto il fragile status dell’escluso, ma piuttosto il fatto che su un piano più elementare siamo tutti esclusi, nel senso che la nostra posizione più elementare, a livello ‘zero’ è quella di essere un oggetto della biopolitica, tanto che diritti politici e di cittadinanza ci sono garantiti solo come atto secondario, in accordo con strategiche considerazioni biopolitiche e questa è la conseguenza ultima della nozione di ‘postpolitica’. E’ per questo che, per Agamben l’implicazione dell’analisi dell’homo sacer non è che dobbiamo lottare per l’inclusione degli esclusi ma che l’homo sacer [l’uomo della ‘nuda vita’ senza cittadinanza] è la ‘verità’ di tutti noi, che esso rappresenta la posizione a livello zero in cui siamo tutti posti.»

Žižek è anche sospettoso di molti conforti ideali che spesso servono a consolidare l’anestesia emotiva, a sopportare e flirtare con questo ‘supplemento osceno’  che dietro i proclami identitari tende a legittimare un permissivismo che ben si associa alla logica perversa del consumo e della crescita continua e che è la nuova maschera (nuda) del potere. E’ questo che  Zizek chiama osceno supplemento superegoico: la relativizzazione di ogni partecipazione che non sia all’insegna dell’ingiunzione a godere/consumare.

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Nuda vita III (Giorgio Agamben)

Continuo il mio bigino sul tema della ‘nuda vita’… Giorgio Agamben è un altro autore che ha riflettuto e scritto molto su questo tema. Riprendendo Foucault e Benjamin, nel suo ormai classico studio sull’ Homo Sacer ha scritto:

«Quella nuda vita (la creatura umana) che, nell’Ancien Régime, apparteneva a Dio e, nel mondo classico, era chiaramente distinta (come zōē) dalla vita politica (bios), entra ora in primo piano nella cura dello Stato e diventa, per così dire, il suo fondamento terreno. Stato-nazione significa: Stato che fa della natività, della nascita (cioè della nuda vita umana) il fondamento della propria sovranità. Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti sacri e inalienabili dell’uomo si mostrano sprovvisti di ogni tutela e di ogni realtà nel momento stesso in cui non sia possibile configurarli come diritti dei cittadini di uno Stato.»

Da questo punto di vista, l’idea dei diritti umani potrà trovare un suo nuovo fondamento ridefinendosi non a partire da una generica appartenenza all’umano ma a partire dal paradigma della sua possibile esclusione: umani sono in primo luogo coloro che paion venuti dal Paese di Nessuno. Un’altra citazione:

«Non possiamo comprendere la logica dei grandi movimenti totalitari e l’‘invenzione’ da essi operata con i campi di concentramento se non riconosciamo il carattere biopolitico dei loro fondamenti ideologici. Nel campo di concentramento il soggetto viene spogliato di ogni statuto personale e politico e la sua identità viene a tal punto negata e misconosciuta che può essere ucciso da chiunque senza che l’atto venga qualificato come omicidio, proprio come l’homo sacer dell’antica Roma o il ‘bandito’ nel medio evo. »

 Secondo Agàmben, fin tanto che ci troveremo immersi nel paradigma che discrimina tra bios politicamente qualificato e zoè spogliata di ogni diritto, il campo di concentramento (o i CIE di cui il governo per decreto ha recentemente esteso la permanenza a 18 mesi), non rappresenterà un’anomalia storica appartenente a un triste passato, ma sarà il vero Nómos ordinatore della nostra convivenza politica. In questo senso «il campo è il paradigma stesso dello spazio politico nel punto in cui la politica diventa biopolitica e l’homo sacer si confonde virtualmente col cittadino». L’esclusione inclusiva è la dimensione principe della post-politica dice Zizek in un suo recente saggio, e la post politica come orizzonte che include tutto privandolo di senso ed escludendolo da un autentica partecipazione è anche una narrazione post-traumatica: anche in questa forma narrativa nosologica gli eventi perdono l’ordine del senso e diventano sintomi e categorie. Trovo infine particolarmente rilevante la riflessione di Agamben quando dice che il rifugiato è forse la sola figura pensabile di ‘popolo’ dei nostri tempi, che ci permette di «intravedere le forme e i limiti di una comunità politica a venire». Consideriamo bene questo paradosso: solo un popolo di rifugiati, cioè di senza patria, definirebbe la forma (e il limite) di una nuova polis pluralista in cui ciò che fonda la comunità è la trasformazione o la perdita della tentazione  immunitaria: solo a questa condizione sarebbe possibile re-inventare le forme dell’appartenenza.

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