Nel suo ultimo libro – Un anno sognato pericolosamente – Zizek insiste con la sua abituale provocatoria arguzia su temi a lui cari. Ci ricorda innanzi tutto che uno dei «pericoli principali del capitalismo, nonostante sia globale e abbracci il mondo intero [è quello di sostenere] una costellazione ideologica che è, stricto sensu, ‘senza mondo’, e priva la stragrande maggioranza delle persone di ogni orientamento cognitivo che produca il senso». La conseguenza dello story telling capitalista è la violenza che non rivendica nulla se non la messa in scena di un carnevale consumista di distruzione. Il riferimento è ai saccheggi del 2011 nelle periferie londinesi: «che razza di universo è quello in cui viviamo,» commenta Zizek, «che può autocelebrarsi come società della scelta, ma in cui la sola alternativa disponibile a un consenso democratico imposto è una forma di cieco acting out?»
L’altro tema su cui insiste Zizek è il superamento della falsa opposizione tra la bieca intolleranza razzista e la tolleranza rassegnata di un certo multiculturalismo. La prima, trincerata dietro i tribalismi difensivi delle proprie appartenenze proietta sull’extracomunitario quel furore ideologico già a suo tempo proiettata sugli ebrei. «Gli immigrati stranieri sono gli ebrei di oggi, il bersaglio principale del nuovo populismo» proprio perchè rappresentano l’intruso straniero che costituisce una minaccia per il corpo sociale. La seconda, la tolleranza multiculturale, pure si rassegna alla differenza localista e alla ghettizzazione delle appartenenze identitarie tradendo la ricerca di una possibile alleanza tra tensioni volte alla costruzione dell’umano nelle diverse culture anche là dove la retorica degli opposti fondamentalismi le offusca. La sintesi di Zizek: non limitarsi a rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, perché i nostri problemi più pressanti sono problemi comuni.
I promotori della primavera araba o l’opposizione civile iraniana, per fare due esempi non sono ‘fondamentalisti’ (il termine non è proprio corretto) e tuttavia sono musulmani credenti. I sostenitori di Musavi (che è risultato sconfitto forse per brogli alle ultime elezioni in Iran) vestivano di verde e gridavano Allah è grande proprio perché non volevano lasciare il monopolio dell’identità islamica ai fanatici fondamentalisti… in altre parole non è saggio rappresentare l’Islam di per sé come un blocco monolitico incapace di aspirazioni universali alla giustizia e incapace di dialogo con altre visioni del mondo…
Cito un paio di passi significativi: «Un secolo fa Gilbert Keith Chesterton descriveva così l’impasse fondamentale della critica alla religione: ‘Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità, finiscono per combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa […] Il laicismo non ha distrutto le cose divine, ha distrutto le cose non divine – se questo può essergli di conforto’. Non potremmo dire lo stesso dei difensori della religione? Quanti fanatici protettori della fede hanno cominciato con l’attaccare ferocemente la cultura laica contemporanea e hanno finito col rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Analogamente molti partigiani della causa liberale sono così impazienti di lottare contro il fondamentalismo antidemocratico che finiranno per gettar via proprio la libertà e la democrazia così da poter combattere meglio il terrorismo. Se i ‘terroristi’ sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri antiterrorismo sono pronti a distruggere il loro mondo democratico per odio dell’altro mondo musulmano. Alcuni di loro amano a tal punto la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura, e cioé la somma degradazione di questa dignità.
E non potremmo dire lo stesso anche di quelli che hanno aderito alla recente campagna europea contro la ‘minaccia dell’immigrazione’? Nel loro fervore di proteggere l’eredità giudaico-cristiana, i nuovi zeloti sono pronti a sacrificare il vero nucleo di questa eredità: ogni individuo ha un accesso immediato all’universalità (dello Spirito Santo, o, oggi, dei diritti umani e della libertà); e io posso prendere direttamente parte a questa dimensione universale, indipendentemente dalla mia particolare posizione all’interno dell’ordine sociale globale. Le ‘scandalose’ parole di Cristo nel Vangelo di Luca non puntano forse nella direzione di una tale universalità che ignora ogni gerarchia sociale? ‘Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre, e la moglie, e i fratelli e le sorelle e finanche la sua propria vita, non può essere mio discepolo’. (Luca 14:26) I legami familiari rappresentano qui una qualsiasi particolare relazione sociale, etnica o gerarchica, che determina il nostro posto nell’Ordine globale delle Cose. L’ ‘odio’ imposto da Cristo non è quindi l’oggetto dell’amore cristiano; ne è bensì l’espressione diretta: è l’amore stesso che ci impone di ‘slegarci’ dalla comunità organica nella quale siamo nati; o, come disse San Paolo, per un cristiano non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci. […]
Gli ambiti di lotta in cui non ci sono ‘né uomini né donne, né ebrei né greci’ sono molti, dall’ecologia all’economia.
Qualche mese fa un piccolo miracolo è accaduto nella Cisgiordania occupata: alle donne palestinesi che dimostravano contro il Muro si è unito un gruppo di lesbiche ebree di Israele. L’iniziale diffidenza reciproca si è dissipata nel primo confronto con i soldati israeliani a guardia del Muro, e una sublime solidarietà si è manifestata quando una donna palestinese abbigliata in modo tradizionale ha abbracciato una lesbica ebrea con i capelli viola pettinati a punta; un simbolo vivente di come dovremmo condurre la nostra lotta.»